La storiografia recente ha ampiamente riconosciuto il carattere fondante dell’imperialismo europeo, degli scambi coloniali, della manodopera e dei saperi tradizionali indigeni nell’elaborazione della storia naturale moderna. Non molta attenzione è stata rivolta invece alla scoperta dell’“indigeno europeo” e alle cruciali interazioni con la natura e gli abitanti di aree storicamente marginalizzate all’interno dell’Europa stessa.
Questa relazione si sofferma sull’estrazione e commercio di fossili per illustrare il ruolo assunto da lavoro manuale e dai saperi locali nella storia naturale italiana del settecento. In particolare, controversie di enorme portata (come l’origine delle “pietrificazioni marine” e l’affidabilità stessa delle Scritture) dipendevano in larga misura da reperti scavati in luoghi spesso geograficamente contingui, eppure di difficile accesso e tradizionalmente percepiti come remoti, estranei e ostili dalla civiltà urbana.
Ignoranti di luoghi, contesti geologici e tecniche di estrazione, i naturalisti e i loro musei cittadini rappresentavano solo l’ultima destinazione di catene di scambi che iniziavano sempre con le mani esperte e l’occhio attento di operai e cavapietre locali.